Vecchia gloria

Il 7 novembre è un giorno di gloria. Lo sa bene chiunque, prima del 1990, veniva ancora ricordato di questo durante le cerimonie scolastiche, o chi ha dovuto attraversare la piazza intitolata a quella data per dirigersi verso Buda o il Parco della Città. Ma che diventasse un giorno di gloria anche per l’Iran? Questa è una novità assoluta, fresca fresca, proprio di ieri.

Recentemente, il rapporto dell’Iran con la gloria si era raffreddato. Segnali c’erano già stati nel passato recente e anche remoto, risalendo fino alla battaglia di Kerbala nel 680, dove gli sciiti subirono la loro più grande sconfitta, commemorata ogni anno durante l’Ashura come la loro festa più importante. Si potrebbe dire che la loro psicologia sociale è ritualizzata per accettare la sconfitta. Tuttavia, anche tra questa serie di battute d’arresto, vi è stato un punto particolarmente basso: a giugno di quest’anno, gli eserciti israeliano e statunitense hanno, in pochi istanti, distrutto con pesanti bombardamenti le difese aeree iraniane e le loro installazioni nucleari.

Il regime iraniano, che ha valutato questa sconfitta con acuta percezione come un fallimento totale e una messa in discussione del proprio funzionamento di mezzo secolo, ha dato ieri una risposta clamorosa all’Occidente. È vero, per farlo ha dovuto risalire nel tempo fino all’ultima vittoria misurabile: Shapur II, lo scià sasanide, che nel 260 trionfò a Edessa sull’imperatore romano Valeriano. L’imperatore e il suo esercito scomparvero senza lasciare traccia nell’impero persiano, e Shapur decorò la sua tomba di roccia vicino a Persepoli con la rappresentazione di quella vittoria: nel rilievo, l’imperatore sconfitto è inginocchiato davanti allo scià a cavallo, con il mantello sulla spalla che impasta la formula del pathos in modo inappropriato alla situazione.

A quanto pare, seguendo un’idea personale del grande ayatollah Khamenei, il regime iraniano ha fatto realizzare una versione scultorea di quel rilievo e l’ha inaugurata ieri, venerdì 7 novembre, nel cuore di Teheran, in Piazza Enghelab, cioè Piazza della Rivoluzione. Secondo la stampa iraniana, la statua è un serio avvertimento all’Occidente. La folla ha applaudito l’inaugurazione, anche perché la cerimonia è stata accompagnata da un concerto pop.

Due figure gigantesche—un guerriero sasanide e un guerriero persiano moderno—chiariscono il messaggio, con l’iscrizione sui loro scudi: مقابل ایرانیان دوباره زانو مزید moqâbel-e Irâniyân dobare zânû mizid “È di nuovo il momento di inginocchiarsi davanti agli iraniani.” Sebbene il messaggio fosse scritto in persiano, lingua per lo più sconosciuta in Occidente, i mari che circondano l’Iran sono indicati in inglese. Ciò suggerisce che i progettisti abbiano probabilmente scaricato anche la mappa del loro paese da un sito occidentale, una sorta di inginocchiamento, si potrebbe dire

L’Occidente probabilmente decodificherà il serio avvertimento e si spaventerà un po’. Ma il gesto ha un’altra sfumatura sottile che vale la pena decodificare. Finora, il regime aveva evitato rigidamente di esaltare la storia persiana pre-islamica: da un lato perché rappresentava la jahiliyyah, l’età dell’ignoranza precedente alla vera fede; dall’altro perché i sah Pahlavi, rovesciati dalla rivoluzione del 1979, avevano basato la propria legittimità proprio su quella storia. Forse per la prima volta, il regime centra la celebrazione su uno scià sasanide. E proprio nella piazza centrale, che prima si chiamava Piazza dello Shah. Significa forse che l’idea dell’islamismo è ormai esaurita e che il paese, come ogni stato di ideologia fallita, deve tornare al nazionalismo collaudato per rafforzare la propria legittimità?

Il tableau vivant monumentale allestito dallo Scià Reza Pahlavi nel 1971 a Persepoli per il 2.500° anniversario dell’Impero persiano è da tempo considerato banale, pomposo e meschino. La versione di Piazza Enghelab aggiunge a questa mediocrità una regia cinematografica davvero pessima.

Ma l’Iran non è stato il primo a dare l’esempio di sconfiggere la tigre di carta. Anche il cristianesimo ha subito una disfatta altrettanto devastante quando, nel 1453, i turchi conquistarono Costantinopoli, distruggendo autostima e senso di sicurezza. L’eco di quella sconfitta risuonò in Occidente, e in quell’occasione si commemorò una vittoria molto antica per ammonire i pagani nel ciclo di affreschi della Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca nella chiesa francescana di Arezzo (1450-63). L’ultima scena del ciclo rappresenta Eraclio nel 628, nella battaglia di Ninive, che sconfigge lo scià persiano Cosroe II e riconquista la Vera Croce rubata a Gerusalemme. Lo scià è inginocchiato a terra tra i comandanti cristiani, che Piero aggiorna con abiti contemporanei invece delle toghe romane, come a dire: “Aspettate, musulmani! Così come vendicammo i pagani allora, prenderemo anche Costantinopoli ora.” I pagani aspettano ancora, forse ormai stanchi.

In entrambe le opere emerge la stessa tensione: passato glorioso e presente vergognoso, sollievo dell’impotenza e accensione della speranza attraverso un esempio storico. Ma sapete una cosa? Come dice la famosa battuta: la nostra è più bella.

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