Gubbio è la più bella cittadina medievale d’Italia. Chi non si lascia convincere dal panorama che si apre dal versante del Monte Ingino, dal giardino del Palazzo dei Montefeltro sopra il municipio, dovrà credere ai cartelli posti alle porte della città che lo proclamano. E, in effetti, qualcosa di vero c’è.
Gubbio può essere familiare al lettore ungherese per due motivi. Il primo è la storia del lupo di Gubbio, che si convertì alla mansuetudine grazie al beato Francesco, come racconta il Codice Jókai, il primo libro in lingua ungherese, datato intorno al 1440. Il secondo è il padre Severinus, ritiratosi nel monastero di Sant’Ubaldo, e le porte dei morti, che Antal Szerb fissò nella coscienza letteraria ungherese nel suo romanzo Il viaggiatore e il chiaro di luna.
Il dottor Ellesley menziona le porte dei morti a Foligno, mentre Mihály vi si sta riprendendo:
— Vede, — disse — il fatto è che ero medico comunale a Gubbio prima di venire a lavorare in questo ospedale. Una volta mi chiamarono per visitare una paziente che, a quanto pareva, soffriva di una grave malattia nervosa. Viveva in via dei Consoli, una strada completamente medievale, in una casa buia e antica. Era una donna giovane, non di Gubbio, nemmeno italiana; non saprei dire di che nazionalità fosse, ma parlava molto bene l’inglese. Era bellissima. I padroni di casa mi raccontarono che, da un certo tempo, la donna, che abitava da loro come pensionante, era tormentata da allucinazioni. Era ossessionata dall’idea che di notte la porta dei morti rimanesse aperta.
— Quale porta?
— La porta dei morti. Vede, a Gubbio queste case medievali hanno due ingressi: una porta normale per i vivi e, accanto, un’altra più stretta, per i morti. Questa porta si apre solo quando la bara viene portata fuori di casa; poi viene murata di nuovo affinché il morto non possa tornare. Si crede infatti che il defunto possa tornare solo dal punto in cui è uscito. La porta non è nemmeno al livello della strada, ma circa un metro più in alto, in modo da poter consegnare la bara a chi attende fuori. La donna di cui parlo abitava in una casa di questo tipo. Una notte si svegliò al rumore della porta dei morti che si apriva, e vide entrare qualcuno che aveva amato molto e che era morto da tempo. Da allora, il morto tornò ogni notte.
Poi Mihály va davvero a Gubbio, per incontrare quel morto e coloro che lo avevano amato.
AUscendo dalla cattedrale, svoltò in via dei Consoli. — Questa è la strada di cui parlava Ellesley — pensò. E in effetti, di quella strada si poteva credere qualsiasi cosa. Nera, antica, desolata, poveramente maestosissima, con le sue case medievali oscure, dove si potevano immaginare abitanti che da secoli vivono soltanto del ricordo del loro glorioso passato, a pane e acqua…
E davvero, già sulla terza casa si poteva vedere la porta dei morti: accanto alla porta principale, a un metro dal suolo, un’apertura gotica stretta, murata. Quasi tutte le case di via dei Consoli ne hanno una; non c’è altro in tutta la strada, e soprattutto non c’è gente.
Oggi le porte dei morti si possono ancora vedere percorrendo via dei Consoli. Si riconoscono dai loro archi gotici alti e stretti e dal fatto che la muratura che le chiude è diversa dai raffinati conci della facciata: di solito è fatta di materiale più povero — mattoni, pietrame o detriti. Alcune, invece, sono state riaperte come finestre o porte. In effetti, da quando la gente non muore più in casa, solo il medico di turno in ospedale deve temere il ritorno delle anime.
Il percorso più suggestivo e affascinante delle porte dei morti, tuttavia, non è via dei Consoli, bensì il vicolo di via dei Galeotti, che corre dietro, affacciandosi sui prospetti posteriori degli edifici principali. Liberato dalla solennità della via maggiore, il vicolo si snoda liberamente, si restringe e si allarga, sale e scende secondo le facciate, i rilievi e i portali. Sopra di esso una serie di archi collega i due lati: i proprietari medievali li costruivano per accedere più facilmente al giardino sul lato opposto o per unire la loro casa a quella della vicina sposata per la sua buona posizione. A causa delle numerose ricostruzioni, qui sono rimaste intatte meno porte dei morti che sul lato opposto della via principale, ma quelle che sopravvivono si affacciano su una strada così suggestiva che — soprattutto quando si accendono le luci della sera — sembra che da un momento all’altro possa apparire lo spirito di qualcuno in cerca di essere riaccolto nella sua antica dimora.
Ma erano davvero destinate le porte dei morti a impedire che lo spirito del defunto ritornasse nella propria casa? Sappiamo che in alcune società arcaiche l’anima del morto vaga per un certo tempo — alcune settimane, quaranta giorni — desiderosa di vita, e se necessario la prende ai vivi, rendendosi perciò pericolosa, cosicché occorre difendersi da essa. Nell’antica Italia, però, non conosciamo riti del genere per tenere lontani i defunti. Conosciamo invece un altro tipo di porta dei morti — o meglio porte doppie per morti e vivi — che avrebbe potuto venire in mente anche a Antal Szerb se avesse riflettuto fino in fondo su quanto scrive nella terza parte del suo libro riguardo al culto etrusco della morte.
Le porte dei morti non sono conosciute solo a Gubbio, ma anche in Umbria, Toscana, Marche e nel nord del Lazio, cioè proprio nella regione un tempo abitata dagli etruschi, che, fondendosi con la popolazione latinizzata, trasmisero la loro cultura. È dunque probabile che si tratti di una tradizione etrusca. Nelle necropoli etrusche era infatti comune la presenza di doppie porte: una reale, per i vivi che vi introducevano il sarcofago e gli oggetti funerari, e una finta porta, dipinta o scolpita, per i morti, che in quanto spiriti vi passavano attraverso per entrare gloriosamente nella vita ultraterrena.
Accanto a queste porte illusorie si trovano spesso custodi alati con torce o martelli, chiamati Charun nelle iscrizioni. Sono gli equivalenti etruschi del traghettatore greco Caronte, ma non trasportano le anime attraverso il fiume Lete: aprono invece con il loro martello la porta davanti al corteo che accompagna il defunto — o che il defunto stesso guida a cavallo —, come si può vedere sui sarcofagi etruschi.
Le porte dei morti etrusche, dunque, non erano uscite dalla casa dei vivi per un morto ormai indesiderato, bensì ingressi solenni per il defunto glorificato in un mondo trascendente di ordine superiore. Non servivano a impedirne il ritorno, ma ad esaltare il suo passaggio e, allo stesso tempo, a chiudere il cammino ai vivi ancora indegni di entrare.
Con la scomparsa del culto etrusco dei morti e delle tombe rupestri, anche il loro doppio ingresso andò perduto. Ma è come se i loro discendenti avessero sentito così importante quella porta cerimoniale per il passaggio nell’aldilà, da volerla riprodurre nelle proprie case. Essa assunse così anche la funzione pratica di far uscire il feretro e, successivamente, quella superstiziosa di impedire il ritorno del defunto.
È significativo un testo medievale: il secondo capitolo dei Fioretti di Santa Chiara d’Assisi, secondo il quale Chiara, quando decise di unirsi segretamente all’ordine di San Francesco, uscì di casa attraverso la porta dei morti. In tal modo moriva per la vita di prima, per la sua famiglia e per questo mondo, ma al tempo stesso passava a una vita superiore, proprio come gli antichi defunti etruschi: questa era, infatti, la funzione originaria della porta dei morti.
E ciò offre un contesto più ampio a un’altra “porta dei morti” di cui ho scritto di recente: un polittico realizzato a Gubbio nel 1418, i cui protagonisti sono Sant’Antonio Abate e San Lorenzo. Le sue scene mostrano il contrasto tra questo mondo — inteso come deserto tormentato dal male — e la buona morte, vista come la porta verso una vita trascendente superiore. Anche l’altare stesso è una porta, poiché la funzione di questi complessi rinascimentali precoci composti da più tavole — come quella dei loro predecessori, gli iconostasi bizantini — è proprio quella di essere porte chiuse che, come attraverso uno specchio oscuro, testimoniano quella realtà trascendente che chi crede spera di sperimentare al di là, quando verrà il suo tempo di varcarla. Il cittadino di Gubbio che fece erigere l’altare e lo ornò con il proprio stemma con lo stesso spirito degli antichi etruschi che innalzavano le porte dei loro morti.
























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