Le oche di San Martino

Se uno viaggia verso il confine austriaco l’11 novembre, giorno di San Martino, o addirittura lo oltrepassa dirigendosi verso la Baviera o la Boemia, lungo la strada i ristoranti lo tentano con manifesti di cene d’oca di San Martino, quasi sempre accompagnati da foto irresistibilmente appetitose. Sei o sette anni fa, preparando il mio pellegrinaggio in occasione del millesettecentesimo compleanno di San Martino — dal luogo natale di Szombathely fino alla sua tomba a Tours — anch’io mangiai e cucinai un’oca simile. Purtroppo le mie foto andarono perdute, e il libro che avrei voluto pubblicare per l’occasione non vide mai la luce. Se però qualcuno mi inviasse una bella foto di una cena d’oca di San Martino di stasera, la pubblicherei qui con piacere.

Il legame tra San Martino e le oche si fa risalire alla famosa leggenda secondo cui il monaco Martino, a Tours, si nascose in un’ocaia per sfuggire alla folla che voleva consacrarlo vescovo — ma le oche, con il loro starnazzare, lo tradirono. Il devoto di Martino, secoli dopo, sembra dunque vendicarsi di quel tradimento a tavola. È un sentimento magnifico: godere di una cena squisita e, allo stesso tempo, partecipare a un atto di giustizia divina — con un’anima più candida delle piume delle oche defunte.

Tuttavia, per chi colleziona leggende itineranti, quel gracchiare non suona affatto nuovo. Molti secoli prima, infatti, durante l’invasione dei Galli (390 a.C.), Tito Livio racconta che furono proprio le oche sacre del tempio di Giunone Capitolina ad avvertire i Romani, con il loro strepito, dell’attacco notturno dei nemici che cercavano di scalare di nascosto il Campidoglio. Grazie a loro, Roma fu salvata. Da allora, un’oca prese parte alle ronde notturne dei soldati romani, mentre i cani dormiglioni furono messi sotto processo — e il più pigro tra loro addirittura impiccato.

English Bestiary, 1230-40. MS Harley 4751 © British Library

L’oca, animale combattivo era pure simbolo di Marte, dio della guerra e figlio di Giunone. Non c’è da stupirsi, quindi, che sia stata associata anche a Martino, il cui nome latino Martinus significa appunto “di Marte”, figlio di un ufficiale romano.

Un’iconografia interessante, raramente notata, appare nel ciclo della Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca nella chiesa di San Francesco ad Arezzo (1452–1466 ca.). Nelle due scene di battaglia, dove sovrani cristiani sconfiggono imperatori pagani — Massenzio (312, in alto) e Cosroe, re di Persia (612, in basso) — i nemici fuggono sotto stendardi mostruosi (draghi, teste di mori), mentre i cristiani combattono sotto simboli romani: l’aquila, il leone, la croce – e, guarda caso, l’oca.

Ma davvero bastano una leggenda popolare posticcia e un racconto errante dall’antichità per spiegare un’usanza così profondamente radicata?

Non sarà piuttosto che non furono le oche ad associarsi a Martino, ma Martino ad appropriarsi delle oche — per dare lustro al suo nome con una tradizione che esisteva già?

L’allevamento delle oche richiede molto lavoro: vanno sorvegliate, guidate, nutrite. A differenza di galline e piccioni, che d’inverno si arrangiano, le oche devono avere erba fresca. Come per i maiali, anch’essi esigenti in fatto di foraggio, prima dell’inverno si macellava tutto ciò che non serviva alla riproduzione primaverile. La data ultima per la macellazione era proprio l’11 novembre. Perché?

Nell’Europa cattolica, fino al Concilio Vaticano II (1962–65), il Natale era preceduto da un quaresimale di quaranta giorni, esattamente come la Pasqua. È per questo che in molte famiglie cattoliche la vigilia di Natale — ancora giorno di digiuno — si mangia pesce, mentre i protestanti preferiscono il tacchino. Quel periodo di astinenza cominciava appunto dopo l’11 novembre: San Martino era quindi l’ultima occasione di bagordi prima dell’Avvento, come il martedì grasso lo è prima della Quaresima.

Pieter Baltens: Fiera di San Martino, seconda metà del XVI secolo, Rijksmuseum

La sera di San Martino, anche nei paesi protestanti come la Gran Bretagna e la Germania, sopravvivono tradizioni antiche come la Martinmas o Martinmesse, con le processioni di lanterne che illuminano la notte imminente dell’Avvento, simbolo delle tenebre prima della nascita di Cristo.

This little light of mine. Martinmas lantern walk

L’11 novembre, dunque, era già il giorno del grande banchetto e delle luci prima dell’Avvento. Ma perché proprio in quella data si celebra anche la festa di San Martino?

Di solito la festa di un santo coincide con il giorno della sua morte — la sua “nascita al cielo”. Martino morì l’8 novembre. Allora perché festeggiarlo l’11?

Da vescovo di Tours, Martino aveva introdotto la visitatio canonica, cioè l’ispezione annuale delle parrocchie. Durante una di queste visite, nel 397, morì in un villaggio sulle rive della Loira, oggi chiamato Candes-Saint-Martin proprio in suo onore. Gli abitanti vollero trattenere il corpo del santo, ma anche i cittadini di Tours lo reclamarono. Alla fine, marinai di Tours arrivarono di notte, trafugarono il corpo e lo portarono via. Se non avessi perso le mie foto, potrei mostrarvi oggi come questo episodio sia raffigurato nelle vetrate gotiche della chiesa parrocchiale di Candes-Saint-Martin. Poi, risalendo la Loira, trasportarono il corpo fino a Tours, dove una folla immensa lo accolse per deporlo nella tomba già pronta.

Tutto ciò avvenne l’11 novembre. Contro l’usanza, non fu il giorno della morte ma quello della sepoltura a diventare la sua festa.

È difficile non pensare che ciò avvenne perché l’11 novembre era già una data importante, segnata dai banchetti prima del digiuno, e non aspettava altro che essere “battezzata” con un nome cristiano — quello di Martino.

San Martino, in fondo, seppe ottenere tutto dalla vita. Fu soldato e poi monaco, fondò il primo monastero d’Europa, e come vescovo diede il primo esempio di un’organizzazione diocesana. Ma la sua grandezza derivò anche dal fatto che seppe morire al momento giusto — o quasi. E se non proprio al momento giusto, almeno con buoni amici che seppero rimediare. Le oche, probabilmente, non erano tra questi amici. Ma, se dev’essere, anche per un’oca è meglio morire in nome di San Martino — come per un maiale, in nome di Sant’Antonio.

A proposito, poveri maiali, hanno un altro nemico oltre a Sant’Antonio Abate: San Martino stesso. Se invece di andare a nord ci dirigessimo a sud, in Europa meridionale—diciamo in Spagna—prima o poi sentiremmo questo proverbio ripetuto mille volte, minaccioso o fatalista a seconda dei casi: A cada puerco le viene su San Martín—“Ogni maiale ha il suo San Martino.” Qui il legame non è tra i maiali e la vita del santo, ma da un lato con l’inizio della Quaresima obbligatoria prima del Natale, e dall’altro con l’arrivo del freddo, momento perfetto per macellare il maiale e conservare la carne per l’inverno. Il proverbio appare in raccolte come il Libro de refranes y sentencias di Pedro Vallés (1549), quella di Hernán Núñez (1555) e il Vocabulario di Gonzalo Correas (1627); Sebastián de Horozco lo commenta nel Teatro universal de proverbios e Don Chisciotte stesso (Quijote, II.64) lo cita per predire un futuro fosco al falso Chisciotte di Avellaneda.

In Sicilia si dice anche, ma solo come segno dell’inizio dell’inverno, senza quel tono sinistro spagnolo: A San Martinu s'ammazza lu porcu s si sazza lu vinu—a San Martino si uccide il maiale e si assaggia il vino.

* * *

Epilogo. Gli ebrei, com’è ovvio, non festeggiano San Martino. Eppure, l’oca di San Martino fa parte anche delle tradizioni ebraiche ungheresi.

Fino al 1840, agli ebrei non era concesso il diritto di residenza nelle città libere del regno d’Ungheria. Di questo si occupava la borghesia cristiana, che vedeva negli ebrei dei pericolosi concorrenti. C’era però un’eccezione: Pozsony (oggi Bratislava). Qui furono gli stessi re asburgici a concedere personalmente il diritto di residenza agli ebrei — proprio di fronte alla cattedrale di San Martino. Per questo, ogni anno nel giorno di San Martino, la comunità ebraica di Pozsony offriva alla corte di Vienna un’oca ben ingrassata, macellata secondo il rito e arrostita alla perfezione, servita su un vassoio d’argento. Il tutto veniva portato a piedi, per evitare che le scosse del carro danneggiassero il pregiato volatile. Di questa consuetudine si parla sia nel capitolo dedicato a San Martino nel Ünnepi kalendárium di Sándor Bálint, sia nel brillante blog Kötődések di Norbert Glässer, anch’egli di Szeged, da cui proviene il seguente collage di articoli del 1942.

L’usanza sopravvisse finché ci furono Asburgo a Vienna, a cui portare l’oca. A dimostrazione di quanto fosse conosciuta, basta citare il numero del 13 novembre 1918 del giornale satirico Borsszem Jankó. Uscì appena due giorni dopo la firma dell’armistizio generale dell’11 novembre — proprio il giorno di San Martino — quando gli imperi sconfitti si erano già trasformati in repubbliche. Senza bisogno di alcun commento, confidando che i lettori comprendessero il riferimento, la rivista poteva permettersi di chiedere:

“Chissà dove avranno portato quest’anno gli ebrei di Pozsony le loro oche di San Martino?”

La didascalia ungherese, che parafrasa il “mene tekel upharsin” biblico (Dan 5, significato originale: “Dio ha contato, pesato e diviso il re”), significa: “andate affan…lo!”

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